Monologo di un seminatore e del suo falciatore – Silvio Talamo
Monologo di un seminatore e del suo falciatore
Il solo mio essere qui, chiaramente,
per te è un fastidio, tanto chiaro quanto
nascosto alle apparenze. Non sopporti
d’arretrare nel confronto, non tanto
con me, ma con ciò che ai tuoi occhi io significo
e mio malgrado interpreto. Sei nato
nella resa e ti sei arreso, per scelta,
schivando sofferenze con lo scudo
di un potere, i poteri infinitesimi
coltivati nel buio di una serra,
quel segmento perso nell’impero,
quel piccolo orticello che è il tuo regno,
tra i lupi e la metropoli (una guerra),
il solo spazio, avuto in concessione,
dove a norma ti è dato di impastare.
I padri, tutti morti, e sopravvivono
i padroni che sono sempre in alto,
dal basso larve astratte ed invisibili,
se da tutti irraggiungibili, certo
anche da te. Non ho scudi, avulso
ai numeri, mi perdo e mi ritrovo
redento nel mio fare che, radice
e strada della vita diventata
ormai miraggio, io faccio per passione
e non calcolo i mercati, medesimi
miraggi di provincia tra i lavacri
del tuo io di depressioni che impedisce
un’apertura, regala sfaldamenti.
E cerchiamo un io che non si trovi
il fantasma di ciò che un tempo è stato,
ma io dicendo io, io mi raddoppio, mi astraggo
e continuo in dispersione, azzannato
in marketing visivi, poi mappato
in profili compratore e sono io,
rapito dentro ai banner, atomizzato
nel mio ego che si gonfia con le SEO,
risucchiato nei loghi dello schermo
il notiziario: il nuovo Edipo. L’io
che implode, l’io che esclude. Io costretto
ad essere nient’altro se non io.
Rifiutando ogni centro che si escluda,
non calcolo mercati, ed è un aprirsi
alla disfatta. Lo sguardo puntato
della morte che spia dalle fessure,
piombando sul destino disarmato
di chi non ha esistenza e tuttavia
si sforza a seminare e tu atterrisci.
È questa guerra arcaica, germinata
nel simbolico, solco sempre aperto
che ancora ci concede quel regalo
che è pienezza, e nel ciclo della storia.
non credere io sia l’unico, tutt’altro.
Sarebbe un moto d’ego: quel superfluo
cresciuto trai miraggi di un sistema
che sa come ci vuole. E sono in tanti:
a decine, centinaia, risucchiati
dal momento, quello stesso che ho vissuto
schivando le catene che mi porti.
Perché assistere al talento, se giovane,
ancora nel suo fare di passione,
è assistere alla gogna, preparata
nel preludio, quel prima di una nascita:
nascosta dentro al giglio che più luce
regali più è urgenza si calpesti
ad impedire al seme di fruttare.
È il processo di Erode coi suoi giudici,
i suoi miti sociali, cavalcando mediali
trai villaggi a sgozzare il nuovo quando
ancora nelle fasce, per chi invecchia
e non ha mai vissuto giovinezza.
E come bambole saltano le teste,
si tappano le bocche della psiche,
si mandano al macello da bambini
i creatori futuri, costruttori
d’aperture. Qui è pieno di statistiche,
cannibali-ingegneri nell’ingordo
tentativo d’ingoiare chi sta fuori
e chi non vuole entrare, ed è distruggere
ciò che è pronto per la nascita,
ed è punirlo, questo, possederlo
mai: non hai questa forza e non l’avrai:
puoi rimuoverlo, mai dimenticarlo.
Sempre sporco di terra, piedi e mani,
il contadino è vecchio, il contadino
è giovane, abbandona la sua serra,
torna alla zolla fatta carta, inchiostro,
suono, silenzio, carne. Pone il seme
a germinare, il solco è nell’attesa,
il lavoro è nella vita, l’estate
che ti avvolge, nel suo giro, va e torna.
Perché questo fa il talento, sa unire
a ciò che accade ciò che può accadere,
ciò che è sotto e, dagli inferi del mondo,
può apparire alla luce in superficie.
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Ho scritto questo testo durante la mia ultima permanenza in Italia, Napoli. Quindi non posso dirlo attuale. Il fatto è che cominciai a riflettere sul senso della creatività, anzi, più ancora, sul senso della creazione vera e propria, di come un messaggio, un’opera, una forma possa arrivare a sbocciare, ad essere proposta. Era il momento in cui decisi di rileggere tutto Pasolini, poeta supernominato, come se tra l’altro fosse stato l’unico della nostra storia, e citato ed utilizzato proprio da quelli che ieri sarebbero stati i destinatari delle sue invettive, immortalati in Salò o le 120 giornate di Sodoma. Caso strano e purtroppo non arginabile, tutto italiano. Fu forse perché lo rilessi tutto di un fiato, che la lettura fu accompagnata dalla costante impressione di un flusso. Del resto lo stesso Pasolini ci ha lasciato quella famosa intervista a Pound, ora presente integrale anche da qualche parte su You Tube. L’idea del “flusso” mi solleticava. Kerouac, citatissimo da tutti i beat, Ginsberg in primis, diceva che il primo pensiero è sempre il migliore, può darsi. Non mi è chiaro se anche il primo verso. Decisi di non bloccare il flusso delle concatenazioni eidetiche, anche quando puramente discorsive. La visualizzazione è attesa, non nevrosi. Il verso è sempre un percorso ritmico. Un mondo di micropoteri e micropotenti, in quel momento, mi è sembrato il primo argine alla produzione simbolica. L’ideologia del marketing mi sembrò la prima ideologia applicata alla nostra socialità. La figura mitica, biblica, di Erode, il re della Giudea con la sua strage, il sintomo di un processo latente in tutte le nostre reazioni. Non conta se la strage sia stata puramente mitica, frutto di leggenda oppure no.
L’eterna lotta tra il farsi comprendere e l’incomprensibile.
Silvio Talamo